essere donna

Mamme che lavorano

La settimana scorsa ero nella sala d’attesa della mia dottoressa. Stavo aspettando il mio turno ed ero decisamente annoiata. Come spesso succede in queste occasioni, la linea del mio operatore telefonico non funzionava bene e internet andava da schifo. Probabilmente per colpa del maltempo degli ultimi giorni. Quindi, esclusa la navigazione sui social, avrei anche potuto leggere un libro (sì, sono una di quelle che spesso legge i libri direttamente dal cellulare), tuttavia la mia attenzione è stata catturata da una rivista. Una di quelle testate palesemente rivolte alle donne, con consigli di bellezza, frivoli test estivi (sei una fragolina o una donna melone?) e inchieste sul mondo femminile. Un articolo mi ha colpito in particolar modo. Il titolo poneva questa domanda: “Le mamme che lavorano possono davvero avere tutto?”. In quel momento mi sono chiesta cosa potesse davvero significare “avere tutto”. Una mamma lavoratrice può avere una carriera, un matrimonio, la salute (soprattutto mentale), la felicità e un buon rapporto con i suoi figli? Simultaneamente? La risposta a questa domanda è complicata e personale che non penso che ne esista una per tutte. Però dal mio punto di vista, come mamma lavoratrice di un bambino di 4 anni e mezzo e di una bimba di un anno e mezzo, avere tutto è piuttosto difficile. E forse il voler avere tutto è piuttosto pretenzioso. A me spesso basterebbe poter dormire una mattina fino alle 10 oppure fare una lunga doccia (di quelle che facevo una volta, lunga un’ora) possibilmente da sola. Dopo un po’ di anni passati ad essere sia mamma che lavoratrice, ho trovato alcune strategie che sembrano funzionare piuttosto bene e ho deciso di condividerle con voi.   CERCARE DI ESSERE SÉ STESSE. Un mio collega (chiaramente maschio) mi ha suggerito di evitare di menzionare i miei bambini durante il lavoro perché in questo modo gli altri colleghi mi avrebbero presa più sul serio. Personalmente non ho mai seguito questo consiglio, non fa proprio per me. Non sono il tipo di persona che non parla dei suoi bambini. Anzi, ne parlo spesso. E questo mi ha aiutata ad essere più autentica come persona e a riuscire ad entrare in contatto più in fretta e in maniera più completa con le mie colleghe donne. ESSERE MULTITASKING. Guardiamo in faccia la realtà, essere una mamma lavoratrice è estenuante. Ogni minuto della giornata sembra pieno di email e pannolini da cambiare. Per questo motivo, ad esempio, ho iniziato a scrivere questo articolo sul mio telefono mentre aspettavo il mio turno in posta. Quando vado dal parrucchiere, mi porto sempre dietro il libro che sto leggendo in quel momento della mia vita, così posso fare al contempo due cose che mi piacciono molto: leggere e prendermi cura di me stessa. Dopo aver portato mio figlio all’asilo e mentre mi dirigo al lavoro, impiego quel tempo per un veloce update telefonico con la mia migliore amica. A volte mi capita di preparare un articolo o di fare una ricerca per il mio prossimo video mentre aspetto un cliente che puntualmente è in ritardo. PIANGERE SUL LATTE VERSATO. L’anno scorso è successa una specie di tragedia. Avevo Zoey nata da poche settimane ma dovevo necessariamente presenziare ad un impegno di lavoro. Mi ero tirata il latte ed ero riuscita ad estrarre qualcosa come 70ml di latte materno. Per me era un record, mi sentivo una specie di eroina. In primo luogo perché ragazze mie, diciamocelo, tirare il latte è l’impegno più arduo di tutta la vita da mamme, in secondo luogo perché le quantità di latte estratto da me sono sempre state esigue. Quindi, dicevo, mi sentivo una super eroina, pronta ad affrontare l’impegno lavorativo della giornata e lasciare la piccola per circa un’ora e mezza insieme a mia suocera. Con il latte fresco ancora nella parte sotto del biberon ma senza il tappo, mi giro e sbam. Mi sbilancio, cado e mi porto dietro tutto il mio preziosissimo latte materno. E niente, sono scoppiata a piangere. Mi sentivo disperata. Piangevo per aver fatto cadere il mio latte, perché dovevo necessariamente andare a quell’incontro, perché mi sentivo in colpa a lasciare la mia bambina anche solo per un’ora. E sapete una cosa? Dopo aver smesso di piangere mi sono sentita meglio. Molto meglio. Da quella volta ho imparato una lezione preziosa. Ogni tanto abbiamo anche bisogno di piangere e di sfogarci. Concediamoci questa cosa. Ci aiuterà sicuramente ad affrontare la vita al meglio. CERCARE DI ESSERE PIÙ PRESENTI POSSIBILE. Sarò onesta. Alcuni giorni quando torno a casa dal lavoro vorrei solo sdraiarmi sul divano, prendere il telefono e farmi gli affari miei. Oppure ancora piazzarmi davanti a Netflix con una ciotola di cheto-patatine in mano e farmi quattro risate davanti ad una sitcom. Il problema è la stanchezza. Ti senti così sopraffatta dalla voglia di rilassarti un attimo che rischi di non essere abbastanza presente. Capita a tutte quella giornata in cui sei talmente stanca che concedi ai tuoi figli di passare mezz’ora davanti al tablet e tu ti concedi del meritato riposo sdraiata sul divano. Di recente però mi sto impegnando ad essere più presente per loro, per poter passare del tempo di qualità insieme. Quindi una volta sistemato la faccenda cena (grazie friggitrice ad aria, mi hai cambiato la vita), metto il telefono da parte, spengo la tv, faccio partire un po’ di musica e mi butto sul tappeto insieme a loro a giocare. E vederli così contenti del fatto che interagisco con loro mi lascia davvero soddisfatta. RIMANERE IN CONTATTO CON LE ALTRE MAMME LAVORATRICI. Avere una rete di mamme con cui confrontarsi è prezioso. Lo è ancora di più se queste donne conducono un’esistenza simile alla tua. Quindi cercatevi delle amiche, anche virtuali, che lavorano come voi con cui chiacchierare e scambiarsi consigli. Le mie amiche mamme lavoratrici mi rendono la vita più semplice e sono una risorsa di cui non potrei più fare a meno.   Alla fine di tutto credo comunque che per me la risposta alla

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Come vedo il romanticismo adesso

Ricordo di una vita prima di avere figli. Vagamente. Prima che casa nostra fosse ricoperta di piccole macchie a forma di ditate sui mobili e minuscoli calzini spaiati riempissero il nostro soggiorno ogni volta che facciamo il bucato. Prima di tutto questo c’eravamo io e mio marito. Più giovani, più spensierati e felici come solo le coppie che si sposano o vanno a vivere insieme per la prima volta possono essere. Ricordo anche i grandi gesti romantici di allora. Ora sono più o meno andati. Più o meno perché comunque mio marito rimane uno degli ultimi veri romantici esistenti sulla faccia della terra. Ricordo di quando mi ha mandato dei fiori bellissimi solo perché sapeva che stavo avendo una giornata terrificante. Oppure di quando mi ha regalato l’anello di fidanzamento e mi ha chiesto di sposarlo (anche se in realtà io avevo già organizzato tutto :P). Quei grandi gesti non ci sono quasi più. Siamo sposati da una manciata di anni ma tra un tira e un molla stiamo insieme da 19 anni. Diciannove anni. Ci rendiamo conto? Anzi, diciannove anni e due figli per essere precisi. Quel tipo di romanticismo ogni tanto mi manca, ma devo essere onesta, la mia visione di romanticismo è nettamente cambiata da quando abbiamo iniziato a costruire la nostra vita insieme. Non ho bisogno di ricevere fiori (anche se ogni tanto me li manda lo stesso eh. Ah a proposito caro marito, fra pochi giorni sarà il mio compleanno, così giusto per ricordartelo anche se so che non ce ne sarà bisogno). Comunque, dicevo. Per me adesso il romanticismo non è più rappresentato da questi gesti. Oggi i gesti romantici che più apprezzo sono quelli che mi semplificano la vita. Sono sicura di non essere la sola che attualmente apprezza di più un paio d’ore da dedicare a sé stessa mentre il marito si occupa dei bambini piuttosto che un brillocco costoso da indossare. O che preferisce avere la lavastoviglie scaricata e vuota piuttosto che un vaso pieno di fiori. Adesso, quando mio marito mi fa dormire per ben un’ora in più rispetto a lui e ai bimbi il sabato mattina, mi sciolgo. Quando torno a casa stanca dopo una giornata difficile e trovo la cena pronta e l’aspirapolvere già passata il mio cuore batte un pochino più in fretta. Quando mi manda il messaggio del buongiorno (dopo diciannove anni cari miei) e mi chiede come sto o come sta procedendo la mia giornata, mi sento amata. Quando gli preparo i vestiti per il giorno dopo, si sente amato lui. Quando la sera gli consento di passare un’oretta a leggere un libro mentre io mi prendo cura della piccola (il grande grazie a Dio alle 20 dorme) lui apprezza quello che sto facendo per lui come se gli avessi portato un bicchiere d’acqua fresca mentre si trova assetato nel deserto. Sono questi piccoli reciproci gesti di amore e apprezzamento che riescono a tenere vivo il nostro amore e la stima reciproca. Non so perché al momento apprezzo di più una cenetta preparata da lui rispetto ad un mazzo di fiori. Forse le cose in futuro cambieranno nuovamente ma per adesso è così e devo ammettere che mi va piuttosto bene. Sì, la mia idea di romanticismo è piuttosto cambiata e forse è diversa dalla vostra. Mi piace pensare che forse siamo cresciuti e maturati. La realtà credo che sia più completa, e forse, siamo anche talmente stanchi che è più facile apprezzare qualcosa che ci semplifica la vita piuttosto che un gioiello (poi ovvio, dipende dal gioiello in questione :D). Quando ripenso al passato, e mi rendo conto che questi piccoli gesti di romanticismo pratico mi apparivano così sciapiti e insignificanti, rido di me stessa. Non avevo davvero idea di come sarebbe stata la mia vita. I fiori sono una cosa semplice da fare. Si possono addirittura ordinare online. Scaricare la lavastoviglie? Questo gesto richiede un impegno. La verità è che non credo che mio marito faccia queste cose perché mi fanno sciogliere, e questa è la parte migliore.  Il fatto che ci tenga a togliere un po’ di peso dalle mie spalle, perché mi ama, fa perdere comunque un battito al mio cuore. Una volta ero super convinta di fiori, gioielli, cioccolatini ecc. Adesso il romanticismo per me è pratico, concreto. E questo, tutto sommato, mi va bene.

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Appunto per l’estate: indossa ciò che vuoi!

Cari amici, l’estate è al suo culmine e il caldo ci sta uccidendo tutti. Dopo averne viste di cotte e di crude, direi che è il caso di fare quel discorsetto. Eh sì, ci tocca. Dobbiamo parlare di quale tipo di abbigliamento è adatto al tuo corpo. Considero questo pezzo un servizio pubblico e dunque “fruibile” da tutti, ma se sei una mia comare dal corpo curvy fai particolare attenzione alle mie parole, perché sono rivolte specialmente a te amica mia. Tagliamo corto per cortesia, che è sera, ho appena messo a letto Noah e Zoey si sveglierà tra poco per reclamare la tetta e non ho molto tempo. Hai presente quando passi davanti ad una vetrina e vedi quel bikini con fantasia giungla tutto colorato? Ti chiedi se starebbe bene col tuo incarnato. Col tuo corpo o anche col tuo umore. Allora ecco cosa devi fare. Non preoccuparti della tua pancia, delle tue cosce, dei buchetti della cellulite o delle tue fossette. E non mi interessa se sei la donna più curvy del circodario. Se pensi che quel benedetto bikini ti farà sentire bene, non rifletterci troppo. Entra e striscia il bancomat. O paga in contanti. O usa la carta di credito. Ma, per l’amor del cielo, compratelo!   So perfettamente che quello che sto “predicando” è più facile a dirsi che a farsi. So tutto di quella fastidiosissima vocina interiore che senti nella tua testa che ti chiede se sia o meno il caso di indossare quel costume. Lo so perché l’ho sentita anch’io. Ogni tanto la sento ancora adesso ma la faccio tacere a suon di vaffanculo. Anche nei giorni in cui mi sento più carina la sento e mi chiedo cosa pensano le altre persone di me che sono così spavalda da indossare quegli shorts in pubblico. Ma sai alla fine cosa penso? Che possono andare tutti a farsi fottere. Viviamo in un mondo dove la bellezza è celebrata, idolatrata, ma solo se incontra determinati criteri. E da quello che ho capito, quei criteri sono largamente basati su una determinata forma fisica e su una determinata taglia. Il che, onestamente, è una merda. Qui non sto parlando del fatto che sia salutare essere obesi, sia chiaro. Io sto parlando del fatto che dobbiamo cercare di vivere al meglio e più in salute possibile e che, alla fine della giornata, dobbiamo accettare noi stessi per quello che siamo, concentrandoci su ciò che realmente significa vera bellezza. La vera bellezza è proprio questo: l’accettazione di sé. Il supportare le persone che ci circondano e che amiamo. La bellezza è riconoscere che abbiamo quei buchetti della cellulite e decidiamo lo stesso di indossare quella gonna perché ci fa sentire bene. La vera bellezza è avere le smagliature e la pancia un po’ molliccia perché quella pancia è stata in grado di ospitare per venti cazzo di mesi due splendidi bambini. La vera bellezza è essere impenitentemente reali. E lo ripeto sottolineandolo. La vera bellezza è essere reali. E questo avviene in tutte le taglie e le forme, fintanto che siamo felici. Essere reali significa gioire della propria vita e assaporarla al meglio delle nostre possibilità senza privarci di qualcosa solo perché siamo preoccupati di quello che potrebbero pensare gli altri. Essere reali significa dare il meglio ai nostri cari, anche se questo significa che a noi rimane poco. È non essere egoisti ma forti e cercare al nostro meglio di rimanere umili. E cara mia, ti assicuro che se hai queste qualità, allora sei bellissima. E non devi scusarti proprio con nessuno. Ci saranno sicuramente le persone che non saranno d’accordo. Quelle che ti diranno che la taglia non c’entra nulla, che è tutta una questione di salute. Ti diranno che essere in sovrappeso è una vergogna e che per questo le donne come noi dovrebbero mettersi unicamente quel costume intero (possibilmente nero, anzi fanculo, mettiti direttamente un burkini!!) per non far passare il messaggio sbagliato. Però il punto è che essere una ragazza curvy non significa necessariamente seguire uno stile di vita sbagliato. Le persone, da fuori e superficialmente, non sanno niente di quello che fai nel tuo tempo se non ti conoscono. Non sanno se cerchi di mangiare sano o se fai dello sport. E questo solamente in base alla tua taglia. Non sanno che magari ogni mattina stai davanti allo specchio e ti chiedi cosa penseranno se indosserai quel top senza maniche. Non lo sanno. E probabilmente non lo sapranno mai. Quindi, fai quello che ti consiglio, e sbattitene di quello che pensano. Nella vita, anche se magari sono magrissimi, sono umani come te. Ogni tanto si infilano le dita nel naso, proprio come te. E come loro non hanno alcun diritto di giudicarti per ciò che indossi, anche tu dovresti farti i fatti tuoi e non giudicare costantemente il corpo delle altre persone pensando “guarda quella che strafiga” o “quell’altra è troppo magra” oppure ancora “che naso di merda ha quel tipo”. Fatti i cazzi tuoi e vedrai che pian piano imparerai a vivere alla grande.   Una donna che ama sé stessa, senza il bisogno costante di giudicare ed essere giudicata, guadagna una cosa di cui pochi parlano. La consapevolezza di sé. Ed è proprio questo il trucco, la grande verità. Nel momento in cui ti sentirai a posto con te stessa perché non ti importerà il giudizio degli altri, diventerai automaticamente più piacevole agli occhi di tutti. Te lo giuro, è così. L’ho provato sulla mia pelle. Io non sono mai stata una taglia 40. Forse nemmeno quando avevo 13 anni. Ma mi sono sempre piaciuta. E proprio per questo sono sempre piaciuta anche agli altri. Quindi non ti sto dicendo una stronzata. Non ti sto prendendo per il culo. Se sei in sovrappeso, cerca di migliorarti seguendo una vita sana ma senza privarti di un gelato. O di una pizza. O di una fetta di torta ogni tanto. E per l’amor del cielo, quando passi davanti a quella vetrina, comprati quel

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Smettetela di dire che vi dispiace

Quando una donna partorisce, la prima cosa che solitamente si vuole sapere è se “è andato tutto bene”. È stato un travaglio veloce o è durato un’eternità? La mamma ha voluto fare l’epidurale? O le è almeno stata offerta? È stato molto doloroso? Le è capitata una brava ostetrica? Ha partorito per via vaginale o con parto cesareo? Quando, qualche mese fa, ho avuto mia figlia Zoey il travaglio è andato male quasi dall’inizio. Ero di oltre 41 settimane, ero enorme, ero stanca e soprattutto ho avuto 2 giorni circa di prodromi. Ma che razza di parola è? PRODROMI. Sembra quasi una parolaccia. Comunque…si tratta di quel lasso di tempo che può andare da un paio di ore ad un paio di settimane (no, ma seriamente? Un paio di settimane??) in cui si hanno contrazioni dolorose ma irregolari sia nel tempo che nell’intensità del dolore. Dopo due giorni, in cui sapevo che sarei potuta entrare nel vero travaglio in qualunque momento, sono partite le vere contrazioni. Erano piuttosto regolari e sono arrivata in ospedale che erano ogni 10 minuti. Sì, lo so che dicono di aspettare che distino 5 minuti l’una dall’altra, ma avevo paura che succedesse qualcosa e soprattutto volevo l’epidurale appena possibile. E non voglio pipponi sull’epidurale, grazie. Arrivo in ospedale che ero di 1 cm ed erano le 21. “Bene” penso “ne mancano solo 9…”. L’ostetrica di turno voleva rimandarmi a casa ma ha capito che se lo avesse fatto sarei tornata lì dopo un’ora. Quindi ha fatto quello che andava fatto. Mi ha dato una stanza e mi ha spedita lì a travagliare con mio marito. Io ero preparatissima. Luci soffuse, musica della mia playlist Relax su Itunes, diffusore elettrico di essenze con olio essenziale di lavanda vera annesso, cuscinone da allattamento da abbracciare, cazzi e mazzi. Dopo vari tracciati e controlli, all’alba delle 5 di mattina ero di 4 cm e decidono di farmi l’epidurale. E comunque robe da matti che nel 2018 una debba combattere per avere l’anestesia epidurale. In quel momento ogni male del mondo è sparito e io volevo bene a tutti. A scapito di chi mi aveva sconsigliato l’epidurale, ero libera e felice. Camminavo, andavo in bagno, chiacchieravo amabilmente e mi sono anche mangiata una coppa del nonno; il tutto sentendo le contrazioni che come onde andavano e venivano ma senza provare la coltellata del pre-anestesia. Questo finché tutto non ha iniziato a precipitare. Con l’epidurale mi avevano attaccato una flebo di ossitocina per “velocizzare” la cosa. Quando l’anestesia ha smesso di funzionare ho ricominciato a stare male e a sentire dolori lancinanti, peggiori di quelli della nottata, anche perché non erano miei dolori, del mio corpo. No, erano causati da un farmaco. Dopo aver pregato l’anestesista di tornare da me, mi è stato fatto un altro bolo (anche qui, bolo??? Come il bolo di pelo che vomita il gatto?) di epidurale e nel mio mondo sono tornati unicorni e arcobaleni. Mentre l’ostetrica e io ci occupavamo di gossip ospedaliero ho cominciato a risentire i dolori di prima. Questo intorno alle 11:30. Mi fanno un altro bolo ma questo non ha cambiato la situazione. I dolori erano a mio avviso ingestibili nonostante l’anestesia. Nessuno sapeva dirmi cosa stesse succedendo. L’unica cosa che mi ripetevano era “Non possiamo farti un’altra dose perché tanto non servirebbe a nulla.”, e poi ormai ero dilatata di 9 cm. A mezzogiorno avevo raggiunto i 10 cm ma i dolori erano peggiori di prima. Sentivo che la schiena mi si stava letteralmente spezzando. Mio marito continuava a chiedere perché sentissi dolore alla schiena e l’ostetrica gli spiegava che dipendeva dalla posizione della bambina, che era rivolta con il viso all’insù e quindi farla uscire sarebbe stato più complicato. Ad un certo punto decidono che per me era ora di iniziare a spingere. Cari miei, sono state le 2 ore più infernali di tutta la mia vita. All’alba delle 14:30, senza più un briciolo di forza e senza il benché minimo progresso nella discesa della bambina, che tra il resto adesso era in palese sofferenza fetale, ho recuperato un briciolo di lucidità e ho chiesto che venisse immediatamente chiamato il ginecologo di turno. Quando è arrivata la dottoressa l’ho guardata negli occhi e le ho detto “Sono passate 2 ore e mezza, io sono al limite della sopravvivenza e sento che c’è qualcosa che non va, adesso è ora di portarmi in sala operatoria e far nascere questa bambina”. E così è stato. Alle 15:34, dopo una successiva anestesia spinale e un taglio cesareo, la mia Zoey Penelope ha visto la luce. Ed è andata bene così. È stato proprio grazie al quel salvifico cesareo che la mia batuffola è nata. Quindi potete ben immaginare la mia confusione quando mi sento dire “Oh, hai avuto un cesareo? Mi dispiace tanto per te.”. Ma che cazzo significa? Ho partorito un mostro? No, è una dolcissima e bellissima cucciola, andremo a casa fra qualche giorno e stiamo entrambe bene. La cosa è continuata per un po’ e non andava sempre così. A volte vedevo sguardi strani tra le persone con cui parlavo. Il tipo di sguardo che ci ti danno quando dici che tutta la famiglia si è presa la varicella e vedi nei loro sguardi che cercano di ricordarsi se loro l’hanno già avuta. Le parole peggiori che mi sono state rivolte “Mi dispiace che tu ti sia persa l’esperienza del parto”. Fatemi capire. Mi sono persa l’esperienza del parto? La bambina non è forse uscita dal mio corpo? Non c’era una piccola bambina che è cresciuta dentro di me per quasi 10 mesi e che in questo momento è sulle mie ginocchia attaccata al mio seno sinistro mentre sto scrivendo? Però tutti, o quasi, predichiamo bene e razzoliamo male parlando di cesareo. Diciamo che è ok farlo quando è necessario, però poi chiamiamo il parto naturale (o parto normale) riferendoci al parto vaginale. E poi tutte queste persone che ti dicono quanto dispiace loro il fatto che

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Quando la tua migliore amica non è più tale

Se devo essere onesta non sono mai stata una persona tipo #miglioriamichepersempre. No. Ho anche sempre mal sopportato quelle sdolcinate manifestazioni di affetto che spesso vedo su FB. Tipo la classica foto di due ragazze abbracciate dopo una nottata passata a folleggiare insieme in giro per locali, visibilmente distrutte, con la didascalia “Sono così fortunata ad avere te come mia migliore amica <3” e l’hashtag #cosìfortunata. Amo la celebrazione vera dell’amicizia, che sia su una piattaforma social e quindi pubblica o che sia in un messaggio mandato ad una amica alle 6 di mattina. Da quando si hanno bambini poi, celebrare l’amicizia o quantomeno vedersi, diventa sempre più difficile. Spesso quello che si fa con le amiche è rimbalzare di data in data e proporre gli appuntamenti più impensabili sui gruppi Whatsapp perché se una può, l’altra di sicuro non può e così via. E da un momento all’altro ti accorgi che sono passati nove mesi da quando hai visto una delle tue più care amiche. Però ti consoli pensando che comunque, quando vi vedrete, passerete del tempo di qualità insieme, magari davanti ad un gustoso Veneziano, chiacchierando come se vi foste viste l’altro ieri. Ma quando invece sai che non sarà più così? Quando sai che la tua cara amica non è più così cara o nemmeno più amica? Quando si ha un bambino, che lo si voglia o no, che si sia pronte o no, la propria vita cambia. Si affrontano diverse questioni per cercare di fare ordine nella propria vita. Si buttano via alcuni vestiti che non si useranno più (con la scusa “Sì beh, adesso sono una mamma, non mi vestirò più così” quando invece la realtà è che non rientreremo più in quel determinato vestito, o magari ci rientreremo anche, ma l’effetto non sarà più lo stesso”), si cerca di rendere la casa a prova di bambino (almeno per cercare di mantenerlo in vita il più a lungo possibile), si cerca di rimanere al passo col lavoro, anche se si è in maternità, perché si sa che al giorno d’oggi rimanere aggiornati è importante. E le amiche? Eh. Ci si rende conto che mantenere in vita un’amicizia è davvero un lavoro. Un duro lavoro. Soprattutto se sommato a tutto il resto. L’arrivo di un bambino in famiglia è un momento duro da affrontare, specialmente se si tratta di un primogenito. Ed è così delicato come momento che forse non si è in grado di dover gestire anche lo stress di quella semplice telefonata in più, parlando con la propria amica di quell’ultimo appuntamento che lei ha avuto con quel dato uomo o di quella litigata fatta con sua sorella. O forse si sarebbe anche in grado di fare tutto questo, ma non se ne ha semplicemente la voglia. Personalmente questo mi è stato chiaro già dai primi tempi della prima gravidanza. Sapevo, non so come, che mantenere determinati rapporti, con alcune amiche, sarebbe stato più faticoso che attraversare a nuoto lo Stretto di Messina con un mini-tanga in pieno Dicembre indossando dei tacchi a spillo al posto delle pinne. La cosa triste è che non pensavo ad amicizie superficiali e nate da poco. No, pensavo ad alcune persone che conoscevo da decenni. Di primo acchito ho pensato che forse sarebbe stato opportuno dare una possibilità alla nostra amicizia e cercare di mantenerla viva impegnandomi al massimo. E così ho fatto. Durante la gravidanza ho cercato di essere presente a cene/pizzate/aperitivi il più possibile, anche se magari sarei stata meglio sdraiata sul divano con le gambe alzate oppure direttamente a letto a dormire. Mi sono anche spinta ad andare a ballare una sera. Poi però per vari motivi di salute (la mia prima gravidanza è stata tutt’altro che facile) ho dovuto smettere di presenziare a certi eventi. Inizialmente ero presente “con lo spirito”, sempre aggiornatissima su dove fosse l’amica di cui sto parlando nello specifico, sempre disponibile via sms, Whatsapp, Skype e chi più ne ha, più ne metta. Poi, via via che passavano i giorni, l’amica in questione mi aggiornava sempre meno e io, con amarezza, ammetto che non ne ero particolarmente dispiaciuta. Mi sentivo un po’ ferita nel vedere foto in cui sarei dovuta essere presente, ma la vita del bimbo che portavo in grembo era indubbiamente più importante ed era la vita che avevo scelto per me da quel momento in avanti, quindi cercavo di non essere troppo rammaricata. Questo finché una mattina, sveglia dalle cinque, sempre più ingombrante ed affaticata, prendo il telefono, apro l’applicazione di Facebook ed eccola lì. Una coltellata al cuore. La foto della mia amica con un’altra ragazza. Con l’hashtag #miglioriamichepersempre. Ok, ci ero rimasta ufficialmente di merda. Lì per lì non sapevo come comportarmi. Dovevo stare zitta? Parlarne? In cuor mio avrei preferito parlarne, per è difficile tenermi le cose dentro. Alla fine ho pensato che sarei passata per cretina se avessi aperto bocca e me ne sono stata zitta. Man mano che i giorni passavano mi rendevo conto di aver fatto la scelta giusta. Ero però consapevole del fatto che il rapporto con la mia amica si stesse raffreddando. Di brutto proprio. Un giorno mi arriva la notifica che sono stata taggata in una foto. Vado a vedere di cosa si tratta e mi rendo conto che è l’invito ad un compleanno. Guardo i nomi delle persone invitate e mi accorgo che la mia amica non è sulla lista. Vado a cercarla per dare una sbirciata al suo profilo e non la trovo. Scomparsa. Strano, penso. Lei è assolutamente social, non starebbe mai senza Facebook. Un’idea si fa largo nella mia mente “Mi ha bloccata”. Controllo su Whatsapp, Instagram ecc. Mi aveva bloccata ovunque. Tolta, eliminata. Come se non fossi mai esistita, come se quasi vent’anni di amicizia non contassero un cazzo. E va bene, ho pensato, avrà fatto le sue valutazioni e avrà deciso che era meglio così. Pochi giorni dopo la vita ha preso il sopravvento ed è nato mio figlio Noah. Dire

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